Sulle splendide montagne ai confini del parco.

Cima di Serra Matarazzo, monte San marcello e Colle Nero


Va subito detto che è stato un meraviglioso “quasi” anello, nonostante il periodo da annoverare ancora tra le escursioni invernali, in un territorio tra i meno frequentati e più belli del parco. Una chicca. Siamo nelle montagne al limite del parco del frusinate, sopra San Donato in Val Comino, singolarmente poco frequentate a dai nomi quasi sconosciuti ai più. I montanari le amano proprio per questo motivo, è difficile incontrare qualcuno, la solitudine e l’isolamento in certi periodi sono davvero assoluti. L’idea era quella di compiere un anello, non potendolo chiuderlo completamente erano indispensabili due auto; insieme con Giorgio raggiungiamo San Donato Val Comino, e seguendo delle relazioni prese dal web decidiamo di lasciare la prima auto al parcheggio che aggetta sull’imbocco della val d’Acero, stando alle poche relazioni trovate dovrebbe essere raggiungibile facilmente nella fase del rientro. Con la seconda auto usciamo dal paese e prendiamo a salire verso la provinciale per Forca d’Acero, quando la strada che costeggia le ripide pareti delle boscose montagne, dopo l’ennesimo tornante, rientra nel meraviglioso scenario della Val d’Acero siamo quasi giunti al nostro punto di partenza; superiamo il primo vero secco tornante (ampio) verso destra in località Castelluccia dove il rifugio-ristoro è ancora chiuso e a quello successivo molto più secco e stretto, verso sinistra a quota 1412 mt, parcheggiamo, per fortuna nel gomito del tornante c’è molto spazio. Nell’apertura del guardrail sul gomito del tornante, inizia la nostra escursione. Sulle carte da questo punto non partono sentieri marcati, solo delle tracce verso valle Inguagnera e verso il vallone dell’Acero, di fatto però a parte un inizio titubante ben presto troveremo dei sentieri ben marcati. Dal curvone ci si deve mettere subito l’anima in pace e si deve perdere quota ancora prima di iniziare, va individuata una traccia sottile in discesa e non ci si deve far ingannare da una che si inoltra senza perdere quota ma che si perde nel bosco; tranquilli, non è molto il dislivello che si perde, nemmeno cento metri. Il primo tratto è bosco intricato da cui è difficile individuare anche il profilo di Serra Matarazzo, ma dura poco, si esce presto allo scoperto che si è già sotto l’imbocco della valle Inguagnera, sotto i costoni ripidi di mt. Panico. L’orizzonte si allunga, sulla valle d’Acero fino ai tetti di San Donato, davanti l’imbocco di valle Inguagnera ancora ricoperto di neve e la diagonale ben evidente del sentiero che andremo a prendere e che sale sulla Serra Matarazzo; insomma si inizia andare a vista e la via è ben marcata. Aggiriamo la testata della valle d’Acero che da inizio alla valle Inguagnera, passiamo accanto ai ruderi di uno stazzo in pietra, all’apparenza ricorda i Tolos della Majella o le Caciare dei monti Gemelli e risaliamo il sentiero ampio, per alcuni tratti ancora ingombro di neve, che traversa la Costa Matarazzo. Raggiungiamo la dorsale erbosa e ci si spalanca davanti un altro angolo isolato, quasi remoto di queste montagne, la valle Lattara, innevatissima e contenuta tra le dorsali della Serra Matarazzo e del mt San Marcello. La Serra Matarazzo si sale senza sentiero, per tracce di animali al pascolo e per gradoni erbosi, è ripida e lunga, traversando si ottimizzano le risorse e si risparmiano le gambe ma rimane comunque una bella rogna, almeno fin tanto non si raggiunge la quota intorno ai 1600 mt. dove la minor pendenza e i panorami che si allargano tutto intorno rendono tutto più semplice, almeno non si pensa alla fatica. La cresta, sempre ampia, scorre tra le due valli Inguagnera e Lattara, è sul limite dei cumuli nevosi che insistono verso la prima, guardando verso la Cima di Serra Matarazzo è una stretta lingua scoperta da neve fin quasi alle quote sommitali, sale, a parte sotto la vetta, con pendenza moderata e costante, insomma è un invito a camminare verso il cielo. Solo l’ultimo pezzo che si alza e si assottiglia, quello sotto la vetta per capirci, ci da un po’ di preoccupazione, siamo lontani e ancora è presto per darsi pena ma lo spazio per passare è limitato e sembra ripido ed esposto, un problema da affrontare da li alla prossima ora. Da una parte, ad Est, scorre la dorsale attigua del monte Panico e San Nicola, ben presto più bassa rispetto a noi, sotto la vastissima, ampia e profonda valle Inguagnera, spettacolare; dalla parte opposta, verso Ovest, dopo la valle Lattara meno ampia della precedente ma al contrario di questa ancora colma di neve, si alza la dorsale che culmina sulla immane piramide del monte San Marcello, da qui una parete davvero importante, strapiombante e che incute ammirazione; lo sguardo verso Sud segue la dorsale che ora si perde nella neve e riaffiora in esili tratti asciutti e che si vanno alzando sotto la vetta di Cima di Serra Matarazzo, dalla parte opposta, verso Nord Ovest la linea di cresta che abbiamo fino ad ora salito si perde nell’imbocco della valle Lattara e in lontananza nel verde intenso e primaverile della valle Comino. Insomma, per due patiti della macchina fotografica come me e Giorgio c’erano talmente tanti spunti da farsi girare la testa e prendere un crampo alle dita. Un tratto molto “intimo” lo abbiamo superato appena prima di iniziare la salita sotto la vetta, la valle Lattare si allarga e forma una conca alta rispetto al fondo, è colma di neve, alcuni alberi spogli aggiungono suggestione; la dobbiamo attraversare affondando di buoni 20 centimetri ma on abbiamo fretta tanto è bello il posto, la piramide del San Marcello sembra doverci cadere addosso. Anche in cresta la neve è alta, in qualche maniera la sfanghiamo e ci ritroviamo nel cambio di pendenza della dorsale che anticipa la cima. Su una lingua di roccette asciutte saliamo sicuri ma lenti per via della verticalità che si accentua, più rocce che erba permettono passi certi anche se affannati. Si avvicina il sottile tratto sotto la cima e come sempre quando ci sei sotto tutto diventa più semplice e meno ardito, anzi diciamolo, quasi facile, la lingua dello spigolo nevoso che sembrava sottile non è poi così minimale, confermiamo la scelta di scivolare intorno alle rocce lasciandoci i quattro/cinque metri di cornice sulla sinistra, male che vada una volta lì, se si ha la percezione della troppa esposizione valuteremo l’opportunità di proseguire sulle roccette anche se un po’ esposte. Al limite della neve, dove da lì in avanti non avremo più tratti scoperti, Giorgio che è più in alto, ci indica l’apertura del Pozzo di serra Matarazzo, sulle carte non è indicato ma è un aberrante grosso buco, una apertura circolare di una decina di metri, profondo e buio che non se ne vede la fine, incute angoscia al solo avvicinarcisi. Riprendiamo a salire, raggiungiamo le roccette scoperte, non intuiamo esposizioni, nemmeno le cerchiamo concentrati come siamo, aggrappati alle rocce e con la neve che sprofonda quel tanto che basta per darci sicurezza superiamo il tratto più stretto della lingua di neve, tagliamo sopra le rocce al sicuro e avvertiamo già la tonda calotta sommitale. Tagliamo ancora un po’ sulla destra dove le rocce affioranti sembrano dare più sicurezza, evitiamo dei piccoli tratti ghiacciati e dopo una ventina di metri prendiamo a salire verticali la rotonda cupola, gli scarponi affondando quel tanto che basta per creare un bello scalino, in pochi passi siamo sopra e intuiamo le pietre che indicano l’ometto di cima. E’ sepolto quasi completamente e questo, se ricordiamo bene, indica che in vetta c’è un metro circa di neve che resiste al calendario astronomico. Cima di Serra Matarazzo è un balcone su gran parte del Parco, mozzafiato il panorama che si gode da quassù in questa giornata così limpida, dalla piana e dalle montagne intorno Pesasseroli al Marsicano, al Velino, alla Majella, fino al Gran Sasso e in direzione Sud fino al Meta e a tutte le montagne “proibite” del parco; rifiorisce il ricordo di pochi mesi addietro quando eravamo sulla prospicente cima di Bellaveduta. Il monte San Marcello e il Colle Nero svettano verso Sud Ovest. Bellissimo e vastissimo il panorama che si gode da questa cima, confondono così tante montagne in un colpo solo; è un momento, che tiriamo per le lunghe ma che alla fine termina, le bianche creste sottili che dovremo attraversare insieme alla lunghezza del percorso che abbiamo ancora davanti non ci consentono di allungare troppo la permanenza in vetta, sappiamo anche che stiamo andando incontro a diversi momenti aerei in quota per cui rompiamo facilmente gli indugi. Dalla cima dei Serra Matarazzo prendiamo la cresta che procede verso Sud-Ovest senza perdere inizialmente quota, teniamo d’occhio quella traccia profonda che sale, dopo la sella, sul filo di cresta del San Marcello e sappiamo che tra poco dovremo cimentarci su quella esposizione, elettrizzante sensazione. Giorgio che è davanti a battere la traccia inizia a sparire quando prende a scendere verso quota 1912 della sella che raggiungiamo facilmente; la sella non è altro che un filo di cresta che separa la valle Lattara dal Fondillo di Settefrati, da impatto le rispettive depressioni che purtroppo possiamo apprezzare poco dovendo avanzare su un molle e alto cumulo nevoso e avendo pochi punti adatti alla sosta. Traversiamo a sinistra del roccione posto al centro della sella in un tratto molto ripido, probabilmente così ripido a causa dei consistenti cumoli di neve che si sono addossati al roccione. Giorgio ha scavato una bella traccia per avanzare e nonostante questo Marina trova non poche difficoltà nel progredire, fa fatica nella gestione dei bastoncini tanto è sprofondata dentro la traccia; sopra più che davanti abbiamo i sessanta metri dello spigolo Est che sale in vetta al San Marcello e che Giorgio ha già iniziato a salire. Qualcuno, forse il giorno precedente, ha lasciato una traccia, rincuora molto quella presenza, segno che la neve tiene e che comunque in cima ci è arrivato; aiuta non poco Giorgio che in parte la ripercorre, lo guardo da sotto e mi affascina la prospettiva verticale, è piccolo e sembra in bilico sulla sottile linea dello spigolo, Non posso rinunciare a qualche scatto veloce, il cielo blu e le nuvole a pecorelle acuiscono il senso di verticalità, un bel momento, di certo quello più importante e adrenalinico dell’intera escursione. Marina da qualche momento è muta, la conosco e intuisco la sua concentrazione che sconfina nel timoroso rispetto di ciò che sta approcciando, mi serro a lei per dargli quel minimo di sicurezza in più. Dimentico la macchina fotografica, solo uno scatto ancora per rubare la verticalità dello spigolo con la valle Lattara da sfondo e mi metto a seguire Marina come un ombra fino in cima, che raggiungiamo lentamente per assicurarci i giusti passi ma senza patemi e difficoltà. Pochi metri oltre l’omino di vetta la sommità è scoperta dalla neve, ne approfittiamo per sederci comodi per la prima sosta mangereccia. Cerchiamo subito le inevitabili e logiche le linee da seguire verso Colle Nero, sempre su filo di cresta, verso Sud. La percorriamo da li a poco, Giorgio parte per primo noi dietro, rilassati ora è tutto più facile, ci teniamo staccati dal limite della cresta che verso Ovest precipita verticale verso il Fondillo di Settefrati, enormi cornici si sporgono nel vuoto, non fanno capire bene il limite del terreno, una cornice in particolare forma un gigantesco riccio che sembra l’onda di un cavallone marino, è completamente arrotolato e sporgente sul niente, enorme, dal peso sicuramente esorbitante è spavaldamente bello a sfidare ogni logica della fisica e della gravità. Ci teniamo a debita distanza, non vorremmo aspettasse il nostro passaggio per decidere di staccarsi e portarsi giù tutto ciò che ha intorno. Ad Est il versante scivola morbido dentro un enorme catino, sembra una dolina, placidamente colma di candida neve, Il Fondillo di Donato. La salita a Colle Nero praticamente termina qui, senza grossi dislivelli, ancora una piccola sella e la risalita di una tonda gobba innevata, siamo più alti del San Marcello di pochi metri, ne mancano pochi per arrivare a 2000, Colle Nero è una sporgenza verso Ovest, verso la piana di San Donato, l’ultimo baluardo prima che la dorsale inizi a scendere verso valle. Pensando alla lunga discesa che ci tocca, la precisa linea che pochi metri sotto la vetta verso Ovest delimita la calotta nevosa dall’asciutto ci preoccupa un po’, immaginavamo una discesa morbida e veloce sulla neve ma si prospetta invece una lunga discesa sull’erba. Volevamo scendere verso valle Fischia per raggiungere la carrareccia di fondo valle, l’alternativa era continuare la dorsale innevata che degrada verso Ovest e che si abbassa più lentamente ma sotto saremmo entrati nel fitto della boscaglia per alcuni tratti ripidi e privi di sentiero, era bene rimanere sul primo progetto. Per fortuna, dopo pochi passi sul versante opposto a quello di salita la neve ricompare, quando ci affacciamo verso valle Fischia, che ci divide dal Bellaveduta, scopriamo un versante stracolmo di neve fin quasi all’evidente sentiero di fondo valle, ci rincuoriamo. Scendiamo a vista sulle linee più logiche, prima sulla dorsale molto larga ed evidente, più in basso dentro il grande catino, verso sinistra, puntando il tratto di bosco più stretto da attraversare. Per alcuni tratti il versante è ripido ma la neve, che raggiunge spessori davvero altissimi, sprofonda quel che basta (a volte troppo) per scendere sicuri e veloci; divertendoci in meno di un’ora raggiungiamo la carrareccia, bagnati zuppi fino alle ginocchia. Con la neve dentro gli scarponi e i piedi che sciacquano nell’acqua che quasi fanno male da quanto sono freddi, contiamo di riprendere temperatura camminando a fondo valle, dove il sole batte diretto e l’aria è ferma. Il bosco e la neve terminano insieme, rimangono qualche centinaio di metri di pratoni ripidi prima della carrareccia di fondo valle, che prende vita accanto ad uno stazzo proprio dove atterriamo. La carrareccia scorre in leggera discesa, è presso che abbandonata tanti sono i massi crollati dalla montagna che la invadono; diventa percorribile qualche centinaio di metri più a valle, sinuosa serpeggia nel bosco ma è sempre scoperta e purtroppo ben battuta dal sole, avevamo voglia di caldo, quello che troviamo è anche troppo. Un chilometro e mezzo dopo a quota 1230 mt incontriamo il rifugio, nel mezzo di un bosco di abeti, è un bel rifugio, di certo utilizzato e raggiungibile, sembra, anche dai mezzi. Scivoliamo verso valle con una leggera costante pendenza, la strada ormai è anche un po’ monotona e il paesaggio incastrato dentro la valle Fischia non cambia, di tanto in tanto il cupolone bianco dei Colle Nero sbuca tra la bassa boscaglia. Più o meno un chilometro dopo il rifugio incontriamo un bivio, la palina all’angolo indica una deviazione per Fonte San Cataldo e San Donato in Val Comino cui mancano ben 2 ore e mezza. Non ci ritroviamo sulla la carta dei “Monti Marsicani – Mainarde – Valle del Giovenco e Monti della Meta”, 1:25000, delle Ed. Il Lupo, non ci risulta la deviazione, non è tracciata nemmeno la carrareccia carrozzabile, a volte le carte che più che aiutarti ti mettono in difficoltà. La carrareccia da cui proveniamo continua verso Sud-Ovest senza perdere quota, verso Settefrati per capirci, non ci convince e ci affidiamo alla palina, svoltiamo secchi quindi sulla destra e il tracciato prende i connotati di sentiero, torna per un po’ indietro per circa duecento metri fino al fondo valle e nei pressi della fonte che ad onor del vero intuiamo solo per il pantano che c’è a terra (evidentemente è stata intercettata), quindi rivira decisamente verso Ovest e prende a correre nel fondo valle, ora molto più stretta e infrattata. Il sentiero continua senza possibilità di dubbi fino a che la valle non si allarga, le tracce si confondono, quella principale entra in una proprietà privata, stazzi e case che sembrano magazzini o rifugi di un pastore o agricoltore. Non entriamo nella proprietà e gli sfiliamo attorno sulla sinistra, ben presto ci infrattiamo tra rovi e ginestre fin tanto che la vegetazione non ci ferma, non rimane che tornare indietro, entriamo nella proprietà, una serie di recinti consecutivi, superiamo il primo e quando stiamo per entrare nel secondo notiamo un sentiero che aggira il recinto sulla destra al limitare del bosco; lo prendiamo sempre per cercare di rispettare il suolo privato. Per un po saliamo su una traccia precisa ma ben presto ci accorgiamo che sale troppo, dall’alto notiamo una strada carrozzabile che entra nella tenuta privata, ci convinciamo che raggiungerla è la cosa migliore da fare per uscire da quel dedalo senza sbocco. Averlo pensato non era esattamente come farlo, il recinto della proprietà era solo a circa duecento metri, al di là del fosso che avevamo sotto, un fosso che dire selvaggio e invalicabile era dire poco. Ci sono voluti tre tentativi e non poche spine conficcate nella nostra carne per averne ragione e quando saliamo sul versante opposto non era ancora finita, un filo spinato ben teso e messo di recente tracciava il confine della proprietà. Invalicabile per gli animali, cavalli e mucche che dentro erano liberi di muoversi, lo era quasi anche per noi. Abbiamo trovato un punto debole col filo più basso a penzoloni e strisciando ci siamo fatti strada. I cavalli mi sa che erano abituati, non ci hanno degnato di uno sguardo, più avanti un cancello di quelli costruiti con paletti e filo spinato che si incontrano in montagna chiudeva l’area. Ci siamo convinti che sarebbe bastato continuare all’interno della proprietà per uscire in pochi minuti e senza troppi problemi, forse non si trattava nemmeno di una proprietà ma di stazzi che avevano recintato e di confini per contenere gli animali, Comunque, ormai stanchi e consapevoli che eravamo ancora lontani dal raggiungere la prima auto ci incamminiamo sulla sterrata, che diventa asfaltata, che prende in discesa ad aggirare la montagna, la carta come in precedenza non ci conforta, non c’è traccia di strada, solo una miriade di piccole tracce, chissà quale di queste è diventata strada nel frattempo. La direzione era giusta, non rimaneva che continuare a scendere per scoprire qualche orizzonte, possibilmente il paese per localizzarci, andiamo diritti ad un incrocio. Alla fine sono diventati 4 i chilometri percorsi per strada, 2 gli ultimi fino al paese, li abbiamo fatti io e Giorgio con passo veloce, abbiamo scaricato gli zaini e lasciati con Marina in uno slargo lungo la strada. Superati alcuni piccoli agglomerati sparsi e una piccola cappella che formano la località di Vorga compare il paese di San Donato, purtroppo ancora lontano , ma bellissimo da questa prospettiva coi colori ormai di fine giornata, Su e giù per la campagna, come niente fosse dopo 8 ore di marcia serrata, scendiamo sulla provinciale all’altezza del cimitero, rimaneva un chilometro da fare fino al parcheggio dove avevamo lasciato una delle due auto. Un chilometro di caldo infernale, Ritorniamo a riprendere Marina e di corsa risaliamo fino alla val d’Acero per chiudere l’anello. Erano le cinque e trenta del pomeriggio, quando ci lasciamo, le nostre montagne ancora davanti e ancora più belle nel taglio del sole del pomeriggio. Ci siamo allungati, col tempo e forse coi chilometri, un po’ forse abbiamo sottovalutato la lunghezza del percorso, alcune indecisioni sui tratti finali indecifrabili grazie ai tanti errori della carta, ma alla fine si è trattata di una escursione imperiosa, su delle montagne poco frequentate e per questo ancora più nobili. Da non dimenticare.